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E pluribus unum: la lezione di Javier Cercas sull’Europa

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L’Europa. Molti mesi fa, tramite l’editore Guanda, abbiamo invitato Javier Cercas ad aprire la XXXI edizione del Salone del Libro di Torino con una lectio sull’Europa. Cercas ha accettato l’invito e ha letto il suo intervento lo scorso 10 maggio, davanti a diverse centinaia di persone, tra cui i presidenti di Senato e Camera. Poiché il discorso pubblico sull’Europa è spesso affidato agli slogan, e poiché il discorso degli scrittori segue invece quando va bene percorsi molto diversi, abbiamo chiesto a Cercas, sempre tramite Guanda, di poter riprodurre qui integralmente il suo discorso. E di poterlo (chi vuole) condividere liberamente. Ringrazio molto Javier Cercas (anche per la sua gentilezza durante i giorni del Salone) e la casa editrice Guanda, in particolare Luigi Brioschi e Paola Avigdor.

E pluribus unum: l’Europa e l’eroismo della ragione

di Javier Cercas

Prima di tutto, vorrei ringraziare gli organizzatori di questa edizione del Salone del Libro di Torino per avermi invitato a pronunciare questa conferenza inaugurale. È un onore che mi fa un enorme piacere, per diversi motivi. Il principale è che la mia vita letteraria italiana è sempre stata legata a Torino in generale e a questo Salone in particolare. Qui, a questo Salone, mi hanno invitato nel 2002 per parlare del mio primo libro tradotto in italiano, e qui da allora sono stato invitato molte volte per parlare degli altri miei libri.

Sempre qui, a Torino, o meglio: nei dintorni di Torino, ho ricevuto, nell’estate del 2003, il mio primo premio letterario italiano, il Grinzane-Cavour. E in questo Salone del Libro mi hanno concesso il primo premio alla carriera che abbia mai ricevuto, il Premio Internazionale del Salone del Libro di Torino, un premio che mi ha dato due cose meravigliose: una settimana di conversazioni in scuole e istituzioni di questa regione, a parlare dei miei libri con persone giovani e non più tanto giovani, e l’amicizia di Ernesto Ferrero, direttore di questo Salone per molti anni, che mi ha accompagnato in quei giorni per me indimenticabili. Per colmo di felicità, quel premio era concesso dai lettori del Salone, e questa è la migliore ricompensa che possa ricevere uno scrittore.

Il motivo è semplice: i libri non esistono senza i lettori. Metà di un libro ce la mette lo scrittore; l’altra metà ce la mette il lettore. Un libro è soltanto una partitura, e sono i lettori a interpretarla, e per di più ogni lettore la interpreta a modo suo. Un libro senza lettori è soltanto lettera morta; è quando il lettore apre le pagine del libro e inizia a leggerlo che quella lettera morta acquista vita, una vita ogni volta nuova e diversa. Per questo i lettori arricchiscono i libri, aggiungendo loro dei sensi che senza dubbio erano nelle pagine, ma dei quali non sempre l’autore era del tutto consapevole. Per questo Paul Valéry dice che non è l’autore, ma il lettore, a fare i capolavori, un lettore rigoroso, dotato di acutezza, di lentezza, di tempo e di ingenuità armata. «Soltanto lui può fare un capolavoro» conclude Valéry. E per questo, fra altri motivi, sono così importanti eventi come questo Salone: perché, di tanto in tanto, permettono a noi autori e lettori di guardarci in faccia, di fare in modo che la nostra complicità privata diventi pubblica.

Insomma: ho detto qualche volta che sono un’invenzione italiana di Luigi Brioschi, il mio editore italiano, che è stato il mio primo editore fuori dal­la Spagna e che fin dal primo momento ha ingannato i lettori italiani facendo credere loro che sono uno scrittore serio; ma Luigi mi permetterà oggi di completare questa verità: la verità completa è che sono anche un po’ un’invenzione di Torino in generale e di questo Salone del Libro in particolare. Perciò, grazie mille.

Ho detto che per me è un onore tenere questa conferenza; dovrei aggiungere che è anche un impegno, per non dire un’avven­tatezza, perché mi hanno chiesto di parlare dell’Europa, o della mia idea di Europa. Il problema è che, al di là del fatto che è il continente in cui vivo, non so bene cosa sia l’Europa; difatti, se mi vedessi costretto a rispondere con una sola frase a questa domanda, probabilmente la cosa più onesta sarebbe riprendere ciò che dice Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, all’inizio di una sensazionale riflessione sulla natura del tempo: «Se nessuno mi domanda cos’è l’Europa, lo so; però, se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so».

Ma sto mentendo: qualche cosa dell’Europa sì che la so. Per esempio, so che per molta gente, forse soprattutto per molti giovani, l’Europa si identifica con l’Unione Europea, e che oggi l’Unione Europea si identifica, nel peggiore dei casi, con un’unione sgranata e improbabile di paesi con tanto passato e scarso futuro, e, nel migliore dei casi, con un ente sovranazionale, freddo, astratto e distante la cui capitale si trova in un posto freddo, astratto e distante chiamato Bruxelles, che non si sa con certezza a cosa serva tranne che a dare lavoro a mucchi di grigi burocrati e a far sì che i politici populisti dell’intero continente gli diano la colpa di tutto ciò che di male accade nei loro rispettivi paesi.

Non sempre, tuttavia, l’immagine dell’Europa è stata così negativa, o almeno non lo è stata dovunque. Al contrario. Per secoli l’Europa costituì, senza andare troppo lontano, la grande speranza di molti spagnoli; consapevoli di vivere dagli inizi del XVII secolo in un paese sempre più isolato, sempre più immerso nella povertà, nell’incultura, nella mancanza di libertà, nel dogmatismo oscurantista e nella finzione di un impero che affondava, dalla metà del XVIII secolo i migliori fra i miei antenati sentirono che l’Europa era una promessa realistica di modernità, di prosperità e di libertà. Io stesso sono cresciuto con quest’idea nella Spagna che cercava a fatica di uscire dal franchismo.

Ma non c’è bisogno di risalire tanto indietro, né di limitarsi alla mia angusta esperienza, o a quella dei miei compatrioti. Poco più di un decennio fa, giusto dopo la nascita dell’euro, mentre si preparavano la Costituzione europea e gli ampliamenti dell’Unione e si svolgevano le prime riunioni per l’avvio di una difesa comune europea, un’Europa unita si profilava come la grande potenza mondiale del XXI secolo, l’unica in grado di minacciare il dominio nordamericano o cinese; al punto che, nel 2004, un giovane politologo britannico come Mark Leonard si azzardava a pubblicare un libro intitolato Perché l’Europa guiderà il XXI secolo e, in quello stesso anno, Jeremy Rifkin, un veterano sociologo statunitense, poteva scrivere: «Mentre il sogno americano languisce, un nuovo sogno europeo vede la luce». E concludeva: «Gli europei hanno messo davanti ai nostri occhi la visione e il cammino verso una nuova terra promessa per l’umanità».

Sembra impossibile, ma è questo ciò che pochissimo tempo fa dicevano dell’Europa pensatori di tutto il mondo. La domanda, a questo punto, si impone: cosa è accaduto perché tutte quelle speranze crollassero quasi da un giorno all’altro e perché, già a maggio del 2010, un giornalista importante come Gideon Rachman potesse scrivere sul Financial Times un articolo intitolato Il sogno europeo è morto? Anche la risposta si impone: ciò che è accaduto è la crisi economica più profonda che abbia sofferto l’Europa dal 1929, una crisi che non ha scatenato una guerra mondiale, come aveva fatto quella del 1929, bensì un terremoto politico di prima grandezza e la resurrezione dei peggiori dèmoni europei, a cominciare dal dèmone del nazionalismo, che è il dèmone della discordia e della disunione. Può l’Europa tornare a essere, ora che la crisi sembra alle nostre spalle, ciò che è stata per i miei antenati spagnoli, ciò che è stata per me in gioventù, ciò che era per tutti o quasi tutti all’inizio di questo secolo?

Ovviamente, non lo so, perciò torniamo alla domanda iniziale: cos’è l’Europa? L’Europa ha un’identità, come quella che a quanto pare hanno l’Italia, la Spagna o la Germania? E, se ce l’ha, in cosa consiste? Hanno qualcosa in comune Dante e Shakespeare, Cervantes e Montaigne, Ibsen e Kafka? C’è qualcosa che condividono tutti questi scrittori che non condividono nemmeno una lingua? E a proposito: basta condividere una lingua per avere una stessa identità? Hanno una stessa identità Milton e Melville, Quevedo e Borges?

Alcuni anni fa George Steiner sembrò tentare di definire l’identità europea in una conferenza intitolata L’idea di Europa. Vi argomentò che il nostro continente può essere ricondotto a cinque assiomi. Il primo è che l’Europa è i suoi caffè, quei luoghi d’incontro in cui la gente cospira e scrive e dibatte, e in cui sono nate le grandi filosofie, i grandi movimenti artistici, le grandi rivoluzioni ideologiche ed estetiche. Il secondo assioma è che l’Europa è una natura addomesticata e percorribile, un paesaggio a scala umana che contrasta con i paesaggi selvaggi, smisurati e intransitabili dell’Asia, dell’America, dell’Africa o dell’Oceania. Il terzo è che l’Europa è un luogo impregnato di storia, un vasto lieu de la mémoire le cui strade e le piazze sono piene di nomi che ricordano un passato sempre presente, allo stesso tempo luminoso e asfissiante. Il quarto è che l’Europa è il deposito di un’eredità doppia, contraddittoria e inseparabile: l’eredità di Atene e Gerusalemme, di Socrate e Gesù Cristo, della ragione e della rivelazione. E il quinto è che l’Europa è la sua stessa coscienza escatologica, la coscienza della propria caducità, della cupa certezza che ha avuto un inizio e avrà inevitabilmente una fine, più o meno tragica.

Questi sono i cinque assiomi che, secondo Steiner definiscono la natura dell’Europa. È quasi inutile dire che l’idea è brillante e provocatrice, ma insufficiente; non c’è dubbio che quelle caratteristiche appartengano all’Europa, ma anche che non bastano a definire la sua identità. Di più: sono sicuro che Steiner lo sappia; e sono anche sicuro che sappia che il problema non è la risposta che nella sua conferenza fornisce alla domanda sull’identità dell’Europa, ma nella domanda stessa. Nella seconda metà del XVI secolo Montaigne scrisse: «C’è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri». Questo significa che, molto prima di Freud, il grande scrittore francese capì che in un certo senso l’identità individuale è una finzione, che dentro di noi si svolge un «drama em gente», per usare le parole con cui Fernando Pessoa spiegava l’eterogeneità della sua opera, o che al nostro interno abita una confederazione di anime, come sosteneva, ispirandosi a Pessoa, un personaggio di Antonio Tabucchi.

Ora, se le identità individuali sono illusorie, come possono non esserlo le identità colletive? In realtà, quelle identità collettive, a cominciare da quelle dell’Italia, della Spagna o della Germania, non sono altro che invenzioni collettive indotte o direttamente imposte da poteri statali che sanno molto bene, come sa qualunque potere, che la prima cosa da fare per governare il presente e il futuro è governare il passato, vale a dire costruire una narrazione del passato in grado di legittimare un presente comune e preparare un futuro egualmente comune.

In realtà, l’unica identità europea verosimile è proprio la sua diversità – un’identità contraddittoria o impossibile, un ossimoro – e l’unica narrazione in grado di legittimarla sarebbe la narrazione, del resto veritiera, di un gruppo di vecchi paesi dotati di lingue, culture, tradizioni e storie dissimili che, a un certo punto, dopo aver trascorso secoli a combattersi in maniera spietata, decidono di unirsi per costruire un paese nuovo e unito dai valori della concordia, del benessere e della libertà dei suoi cittadini. Da questo punto di vista, il lemma dell’Europa unita potrebbe essere uno dei primi lemmi degli Stati Uniti, che è stato la grande utopia politica che ha partorito l’Illuminismo, e storicamente quello che ha avuto più successo; il lemma era: E pluribus unum; cioè: da molti paesi, lingue, culture, tradizioni e storie, un solo stato.

A questo punto devo fare una confessione: per me l’Europa non ha mai smesso di essere ciò che è stata nella mia giovinezza di ragazzo appena uscito da una dittatura interminabile, la stessa che per secoli è stata per i migliori dei miei antenati spagnoli; in altre parole: come il mio amico Erri De Luca, sono un europeista estremista. Questo significa che, per me, l’Europa unita è l’unica utopia politica ragionevole che noi europei abbiamo coniato. Di utopie politiche atroci – paradisi teorici trasformati in inferni pratici – ne abbiamo inventate a mansalva; di utopie politiche ragionevoli, che io sappia, soltanto questa: l’utopia di un’Europa unita.

Se non mi sbaglio, c’è un’infinità di fatti evidenti che avallano questa idea; talmente evidenti che temo che tendiamo a dimenticarli, tutti insediati come siamo in una dittatura del presente per la quale ciò che è accaduto ieri è già il passato, e ciò che è accaduto una settimana fa è praticamente la preistoria. Citerò soltanto tre di questi fatti.

Il primo è che lo sport europeo per eccellenza non è il calcio, come tanta gente crede, bensì la guerra. Durante l’ultimo millennio noi europei ci siamo ammazzati gli uni con gli altri senza concederci un solo mese di tregua e in tutti i modi possibili: in guerre di cent’anni, in guerre di trent’anni, in guerre civili o di religione o etniche o in guerre mondiali che in realtà erano fondamentalmente guerre europee. Queste ultime sono state terribili, delirantemente atroci: come ricorda lo stesso Steiner, fra l’agosto del 1914 e il maggio del 1945, da Madrid al Volga, dall’Artico alla Sicilia, si calcola che un centinaio di milioni di uomini, donne e bambini siano morti a causa della violenza, della fame, delle deportazioni e delle pulizie etniche, e l’Europa occidentale e l’occidente della Russia si sono trasformati nella dimora della morte, nello scenario di una brutalità senza precedenti, che fosse quella di Auschwitz o quella del Gulag.

Il progetto dell’Unione Europea sorse evidentemente dall’orrore nei confronti di quella carneficina indescrivibile e dalla convinzione, piena di sensatezza, di stanchezza e di coraggio, che nulla di simile dovesse ripetersi in Europa; il risultato di quella convinzione non è meno evidente, ma neanche meno stupefacente: mio padre ha conosciuto la guerra, il mio bisnonno e il mio trisavolo e probabilmente tutti i miei antenati hanno conosciuto la guerra, ma io non la conosco; vale a dire: il risultato è che appartengo alla prima generazione di europei che non conosce una guerra, almeno – non dimentichiamo le lotte feroci che hanno smembrato la Jugoslavia – una guerra tra le grandi potenze europee. Naturalmente, so che c’è chi pensa che è ormai inconcepibile un’altra guerra in Europa. Mi sembra un’ingenuità. Nella storia d’Europa, la cosa rara non è la guerra, ma la pace; inoltre, basta che spuntino di nuovo problemi seri, come abbiamo visto con la crisi del 2008, perché risorga in tutta la sua forza il nazionalismo, che è stato la causa finale, l’ornamento e il carburante di tutte le guerre europee degli ultimi due secoli. L’unione dell’Europa è nata per combatterlo, ma si tratta di un compito difficile.

Il nazionalismo non è un’ideologia politica: è una fede; dopo tutto, la nazione fu il sostituto di Dio come fondamento politico dello Stato, e liberarsene in Europa sarà tanto difficile quanto lo è stato liberarsi di Dio. Come osservò George Orwell, il nazionalista è indifferente alla realtà, perciò non è importante che gli venga dimostrato con dati, per esempio, che uscire dall’Europa è un cattivo affare per la Gran Bretagna o che tutta la verbosità anti-immigrazione di Nigel Farage non è altro che questo, verbosità – il delirio xenofobo di un chiacchierone –, perché lui continuerà a credere che i britannici debbano uscire dall’Europa e che gli immigrati minaccino il suo lavoro e la sua sicurezza, e di conseguenza voterà a favore della Brexit. Condorcet scrisse che «la paura è all’origine di quasi tutte le stupidaggini umane e, soprattutto, delle stupidaggini politiche». E Walter Benjamin sosteneva che la felicità consiste nel vivere senza timori; i nazionalisti sono infelici con molta paura: per loro, per molti di loro, l’Unione Europea è solo una cianfrusaglia distante, inservibile e senz’anima che li costringe a vivere all’intemperie, con gente strana che parla lingue strane e ha abitudini strane; preferiscono vivere con i propri simili, o meglio con quelli che immaginano o hanno fatto credere loro che siano i propri simili, protetti dalle false sicurezze di sempre, rifugiati in illusorie identità collettive, respirando, come direbbe Nietzsche, il vecchio odore della stalla. L’unico modo di fare qualcosa di utile con il futuro è avere il passato sempre presente, e perciò è un errore enorme dimenticare la cupa storia di violenza che ha spianato l’Europa, far finta che non sia mai esistita; dimenticare che l’Unione Europea è stata essenziale per cancellare quel passato sinistro è un errore ancora peggiore.

C’è un secondo motivo per cui l’unione dell’Europa mi sembra il progetto politico più attraente e ambizioso dei nostri tempi. Sappiamo che l’Europa è stata per secoli il centro del mondo, ma sappiamo anche che non lo è più, e da un po’ di tempo a questa parte non passa giorno senza sentire o leggere che quasi l’unica cosa che resta da fare a noi europei, sotto la spinta delle grandi potenze emergenti, è languire come nobili in disgrazia tra le rovine del nostro passato splendore, per parafrasare il più grande poeta spagnolo del dopoguerra: Jaime Gil de Biedma. Non credo che questo pessimismo sia giustificato. È vero che il peso dei nostri paesi nel mondo, presi uno per uno, è sempre minore, specie se lo paragoniamo al peso della Cina o dell’India o del Brasile, ma è anche vero che, insieme, godiamo ancora di un potere enorme: senza spingerci troppo lontano, siamo la più grande economia del mondo, con un PIL di 14mila miliardi di euro. È anche vero che il peso politico dell’Europa è scarso, e anche il suo peso culturale e scientifico; ma questo non è dovuto al fatto che sia unita, bensì a quello che non lo è abbastanza, che i vecchi stati resistono con le unghie e con i denti a cedere sovranità e a dissolversi politicamente in un unico stato federale.

L’utopia è ancora molto lontana dal realizzarsi, e perciò nessuno può essere soddisfatto del funzionamento attuale dell’Unione Europea: per cominciare, il deficit democratico delle sue istituzioni è sanguinoso, il che costituisce forse il problema principale dell’Unione perché impedisce che quello che inizialmente è stato, per forza di cose, un progetto elitario, ideato e diretto da un’avanguardia illuminata, si trasformi in ciò che deve essere: un progetto popolare, direttamente sostenuto e protagonizzato dalla cittadinanza; ma qui i problemi cominciano soltanto: siamo privi di una politica economica e fiscale comune (anche se non di una moneta e di una banca comuni), non abbiamo una politica interna ed estera comune, né una politica di difesa comune, né ovviamente una politica culturale comune. Da quest’ultimo punto di vista, che è quello del nostro piccolo cantuccio di lettori e scrittori, la disunione è totale, al di là dei contatti e delle fecondazioni che si sono sempre prodotti e che, è vero, forse in questo momento sono più fluidi che mai; ma sono del tutto insufficienti: ciascuno dei nostri paesi opera mediante sistemi letterari, educativi e intellettuali completamente diversi, non abbiamo giornali o riviste o radio o televisioni comuni – con la qual cosa siamo privi di un’opinione pubblica comune –, non abbiamo case editrici europee, e neanche un dibattito di portata europea, non sono nemmeno sicuro che abbiamo molti scrittori davvero europei – scrittori davvero importanti in tutta la geografia europea – e so che esiste un premio letterario europeo, che concede ogni anno il Parlamento Europeo, soltanto perché un paio di anni fa è stato concesso a uno dei miei romanzi, il che significa che la ripercussione europea di quel premio è molto scarsa.

Tutto ciò che ho appena detto può sembrare banale o secondario, specie se lo si paragona alle grandi questioni economiche e politiche, ma non credo che lo sia. Forse la grande sfida dell’Europa, o dell’Europa in cui mi piacerebbe vivere e sulla quale scommetto, consiste proprio nel conciliare due cose che in linea di principio sembrano inconciliabili: la diversità culturale e l’unità politica. Senza la diversità culturale, l’Europa s’impo­verirà in maniera irreversibile, perché la varietà di lingue, di culture, di tradizioni locali e di autonomie sociali è fra di noi una fonte quasi inesauribile di ricchezza, e perciò dev’essere accudita e potenziata; non c’è contraddizione fra questa urgenza e quella di creare una cultura europea comune, dotata di un sistema intellettuale comune e di una comunità di interessi, perché questa cultura europea di tutti dev’essere ciò che in fondo è sempre stata, fin dalla disintegrazione dell’Impero Romano: il risultato della fecondazione di lingue e culture diverse. Però, allo stesso tempo, senza l’unità politica l’Europa sembra condannata alla distruzione, perché quella diversità culturalmente tanto feconda è stata politicamente il germe degli odii etnici, delle rivendicazioni regionalistiche e dei nazionalismi sciovinisti che hanno fatto scontrare senza tregua il continente e minacciato di annientarlo. «E pluribus unam»; torniamo alla diversità, all’identità multipla dell’Europa, al suo ossimoro originario: l’Europa dev’essere politicamente una e culturalmente plurale. Solo così, mi sembra, potrà dare il meglio di sé e non rassegnarsi all’irrilevanza.

Il terzo e ultimo motivo per cui un’Europa unita mi sembra il progetto politico più prezioso dei nostri tempi non è meno importante dei due precedenti, ma si può spiegare con meno parole. I trattatisti politici classici ritenevano abitualmente che l’ideale per lo sviluppo della democrazia fosse, per dirla come Rousseau nel Contratto sociale (libro III, capitolo IV), «uno Stato molto piccolo, in cui sia facile per il popolo radunarsi, e in cui ogni cittadino possa facilmente conoscere tutti gli altri». Salta agli occhi che questa raccomandazione non è più valida ai giorni nostri. Il motivo risiede nel fatto che uno dei nostri principali problemi politici è che, nelle attuali economie globalizzate, le grandi aziende multinazionali possiedono un potere così enorme che finiscono per imporre le loro norme ai governi dei paesi, e soprattutto a quelli dei paesi piccoli, privi del potere sufficiente a scontrarsi con loro, e che quindi devono sottomettersi ai loro dettami. Questo significa che un’Europa davvero unita, che riunisca il potere di più stati, rappresenta forse l’unica possibilità che, nelle nostre società, la politica possa arginare il potere cieco e onnicomprensivo dell’economia e che pertanto costituisca forse l’unico strumento che potrebbe permetterci una democrazia degna di questo nome. Jurgen Habermas, tra gli altri, ha insistito a ragione su questo aspetto: «La democrazia in un paese solo» scrive il pensatore tedesco «non può nemmeno difendersi dagli ultimatum di un capitalismo furioso che oltrepassa le frontiere nazionali».

Concordia, prosperità e democrazia: sono questi i tre pilastri che l’Unione Europea ha contribuito a mantenere in Europa in quest’ultimo mezzo secolo, e sono questi i valori che dovrebbero guidare la nostra ragionevole utopia futura; dopo tutto, nulla di essenziale li distingue dai valori fondativi della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. È vero che, come dicevo prima, l’utopia è ancora molto lontana dal diventare realtà, come verifichiamo ogni volta che si produce una crisi importante in Europa, che sia la crisi economica o la crisi dei rifugiati, quando l’Unione Europea è incapace di agire come un tutto e ciascun paese torna a ripiegarsi su sé stesso, a vegliare sui propri interessi e a trascurare gli interessi comuni, senza comprendere che, almeno nell’Europa attuale, non possiamo vegliare sui nostri interessi senza vegliare su quelli degli altri, perché anche gli interessi degli altri sono i nostri interessi.

No: è impossibile non essere d’accordo sul fatto che l’utopia europea non si è ancora del tutto realizzata; però, a ben guardare, forse è meglio così, perché le utopie sono in certo qual modo come le democrazie. La democrazia perfetta non esiste: una democrazia perfetta è una dittatura; vale a dire che è una democrazia finta: ciò che definisce la vera democrazia non è il fatto che sia perfetta, ma che sia infinitamente perfettibile, che si possa sempre migliorare. Con le utopie avviene la stessa cosa. Un’utopia portata nella realtà è un’utopia finta, perché noi esseri umani siamo differenti, alberghiamo necessità, aspirazioni e desideri diversi, e ciò che per alcuni è un paradiso per altri può essere un inferno; un’utopia vera, quindi, non è quella che fornisce una stessa felicità a coloro che la abitano, ma quella che permette a ciascuno di cercare la propria felicità a proprio modo. In futuro potrà essere questo l’Europa unita? Potrà essere ciò che solo pochi anni fa pensatori e politologi di tutto il mondo pensavano che sarebbe stata, la leader del XXI secolo, come pronosticava Mark Leonard, la nuova terra promessa dell’umanità, come vaticinava Jeremy Rifkin?

Non lo so: continuo a non avere una risposta a questa domanda. Ma mentirei se non dicessi che alcune cose le so. Per esempio, so che, come stanno notando con stupore alcuni esperti di politica internazionale, come Moises Naim, assistiamo da tempo a un fenomeno straordinario, cioè che la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, sta rinunciando al proprio potere e alla propria influenza per sua stessa decisione e senza che le vengano sottratti dai suoi rivali. Questo fenomeno si è acutizzato con l’arrivo al potere di Donald Trump, al punto che John Kerry, ex segretario di stato nordamericano, ha definito questa ritirata generale come una «grottesca abdicazione dalla leadership», e non manca chi, come il sociologo norvegese Johan Galtung, noto per aver predetto la caduta dell’Unione sovietica, va annunciando da tempo, con argomentazioni per nulla trascurabili, il prossimo crollo del potere nordamericano.

Non so se tutto avverrà così rapidemente come ipotizza Galtung, però è vero che, dopo quasi un secolo di egemonia mondiale, gli Stati Uniti si stanno richiudendo in sé stessi a tappe forzate, cosa che si avverte in molti campi: non hanno firmato il Trattato commerciale transpacifico (il cosiddetto TPP), si disinteressano di quanto accade in Europa e riducono ogni giorno la loro influenza in questioni chiave, come la lotta contro il riscaldamento globale, la proliferazione nucleare, gli aiuti allo sviluppo, il controllo di pandemie globali, la regolazione di Internet o gli interventi per contenere la crisi finanziaria. Sappiamo che, così come gli imperi, le egemonie non sono eterne, e spero soltanto che, quando si concluderà quella degli Stati Uniti, non arrivi, come in tanti pronosticano, il turno dell’egemonia cinese. Ciò che spero è che a quel punto l’unione dell’Europa sia un fatto molto più solido di quanto è adesso e che, grazie a esso – grazie alla trasformazione dell’Europa in uno stato federale – potremo, se non rilevare il testimone dagli Stati Uniti, almeno occupare un posto rilevante nel mondo post-egemonico che alcuni prevedono. In caso contrario, se la nostra posizione in questo nuovo mondo senza una egemonia chiara sarà una posizione secondaria o subordinata, temo fortemente che staremo mettendo in serio pericolo un modo di vita privilegiato di cui godiamo da decenni e che molti sembrano dare temerariamente per scontato. Temerariamente perché quel modo di vita non si è solidificato in maniera spontanea; tutto il contrario: è il risultato del sudore e del sangue di generazioni di europei e, più immediatamente, di un esperimento politico inedito, di un’audacia straordinaria, che è sorto dalla cognizione degli orrori che abbiamo perpetrato nell’Europa del XX secolo e di ciò che riesco soltanto a chiamare l’eroismo della ragione, il quale ha eretto in quest’ultimo mezzo secolo la società più pacifica, più prospera e più libera della nostra storia: un esperimento che, come ricordava non molto tempo fa Michel Serres, ha permesso agli europei di vivere «il periodo di pace e prosperità più lungo dai tempi della guerra di Troia». Non si tratta di trionfalismo: si tratta di riconoscere un’evidenza storica; ignorarla è un errore, perché chi non è in grado di identificare ciò che possiede di buono difficilmente identificherà il buono che gli manca e ciò che di brutto deve correggere.

Ho appena utilizzato l’espressone «eroismo della ragione» e dovrei chiarire che non è mia, ma di Edmund Husserl. Il filosofo tedesco la utilizzò nel 1935, al termine di alcune celebri conferenze sulla crisi dell’umanità europea che tenne a Vienna e a Praga. Vi affermò che ciò che definiva l’Europa era la passione per la conoscenza razionale, e che a quel punto, quando il continente si stava riprendendo da una carneficina indescrivibile e alcuni cominciavano a respirare nell’aria l’inizio di un’altra, all’Europa rimanevano soltanto due vie d’uscita: la decadenza, dice Husserl, «in un distanziamento dal proprio senso razionale della vita, lo sprofondare nell’ostilità dello spirito e nella barbarie, o il rinascimento grazie allo spirito della filosofia mediante l’eroismo della ragione». Io sento che quell’eroismo della ragione costituisce l’impulso originario all’unione dell’Europa ed è alla base della narrazione veritiera che, come dicevo prima, la legittima: la storia di alcuni vecchi paesi provvisti di lingue, culture, tradizioni e storie differenti che, dopo secoli in cui si sono combattuti senza pietà in guerre eterne, decidono di unirsi per costruire un paese nuovo e coeso dai valori della concordia, del benessere e della libertà.

Alcuni di voi staranno pensando che sono un ottimista, o forse un illuso. Ci sarà perfino chi pensa che, dal 1935 in avanti, ci siamo allontanati ancora di più dal senso razionale della vita di cui parlava Husserl, che siamo sprofondati ancora di più nell’ostilità dello spirito e nella barbarie. Io non lo credo, e penso che non lo crederebbe neanche un grande scrittore italiano, Alberto Savinio, le cui parole voglio riportare qui per terminare questa chiacchierata. Le parole di Savinio furono pubblicate il 27 dicembre 1944, poco prima della fine della guerra in Italia e nel resto dell’Europa, e palpitano al ricordo dell’orrore appena concluso e all’euforia della liberazione dal fascismo. Voglio leggerle perché sono spossate da un’emozione genuina, che è a suo modo all’origine immediata dell’utopia ragionevole dell’Europa, e perché in quell’emozione risuona, per me, l’eroismo della ragione di cui parlava Husserl:

«Sono sempre più profondamente convinto» scrive Savinio «che i popoli dell’Europa non guariranno dalle loro gravissime ferite se non formeranno una sola nazione unita da comuni pensieri, da comuni interessi, da un comune destino (…).

L’Europa, in fondo e magari a sua insaputa, vuole formarsi e presto o tardi si formerà. Chissà? Tale è la follia degli uomini e tale la loro stupidità – tale è soprattutto la loro insistenza a non risolversi a quello che il destino prescrive se non incalzati (…) – che forse ci vorrà una terza guerra anche più disastrosa delle due che l’avranno preceduta per chiarire nel cervello degli europei la necessità dell’unione; nel qual caso non più gli europei vivi si uniranno, ma le ombre degli europei, come Omero chiama i fantasma di coloro che hanno vissuto. Ma forse no (…).

Nessun Uomo, nessuna Potenza, nessuna Forza potranno unire gli europei e fare l’Europa. Solo una idea li potrà unire. Solo una idea potrà fare l’Europa. Idea: questa cosa umana per eccellenza.

E questa idea è l’idea della comunità sociale (…).

E questa unione “naturale” dell’Europa avverrà. Avverrà prima o poi. Avverrà presto o tardi. Avverrà nonostante tutto. Avverrà a dispetto di tutto (…).

L’appello che chiude il manifesto del comunismo, va aggiornato così: “Partigiani di tutta l’Europa, unitevi!”, intendendo per partigiani e partigianismo l’elemento genuino dell’Europa che opera per impulso proprio, e non per ordine o ispirazione altrui».

Grazie mille.

Javier Cercas

Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

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